L’uso dei fanghi in agricoltura potrebbe essere una buona pratica nell’ambito dell’economia circolare, ma il caos normativo rende difficile capire pregi e difetti di questa soluzione capace di contrastare il fenomeno dell’impoverimento del suolo

Desertificazione (il 41 per cento dei terreni in Italia è a rischio, secondo i dati del Cnr), e perdita del suolo sono uno dei maggiori problemi dell’agricoltura. Il settore risicolo della Lomellina, a causa anche di alcune peculiarità, ne sta soffrendo particolarmente. Una delle soluzioni, adottata fin dagli anni 90, si chiama fanghi. Ovvero reflui civili e agro-industriali di tipo organico, appositamente depurati e igienizzati, sparsi sui terreni per ridare fertilità. Fin qui tutto bene, anzi siamo nell’ottica dell’economia circolare, sostenuta e promossa dall’Ue. Ma di mezzo ci sono i timori per le possibili sostanze inquinanti, i miasmi che non piacciono ai cittadini. Allarmi spesso irrazionali, difficili da gestire. Tanto che 51 Comuni delle province di Pavia e Lodi sono ricorsi al Tar impugnando la normativa della Regione Lombardia che ha stabilito in 10.000 mg/Kg di sostanza secca il valore limite degli idrocarburi pesanti nei fanghi (il Tar dovrebbe esprimersi in aprile). Valori troppo alti: questo è il rischio paventato da sindaci e popolazione. Ma andiamo per gradi a srotolare la matassa.

Regole poco chiare in un settore in forte espansione come quello dei fanghi, dove ancora c’è incertezza normativa

Dalla direttiva Ue all’intervento delle Regioni – In Italia, quando si tratta di applicazione di una norma, al solito le cose si ingarbugliano. La materia dei fanghi di depurazione in agricoltura è disciplinata da una direttiva Ue (86/288/Cee) recepita dall’Italia con un decreto legislativo (99/1992). Poiché il decreto è molto datato (da anni si parla di una sua revisione da parte del Ministero), alla luce di un’evoluzione tecnico-scientifica, varie Regioni hanno deciso di applicare norme più restrittive (lo prevede il D.lgs). La Lombardia ha cominciato a deliberare sul tema fin dal 2003 (Dgr. 30 dicembre 2003, n. 7/15944), delegando alle Province le funzioni amministrative relative al rilascio delle autorizzazioni agli impianti. Ha introdotto un limite per idrocarburi totali, solventi, tensioattivi e pesticidi. Fino ad arrivare all’ultima normativa (la delibera 2031 del 2014), dove sono stati introdotti limiti anche per Ipa (idrocarburi policiclici aromatici a base di benzene), Pcb, diossine e furani, cui sono seguite due integrazioni successive, nel 2016 e 2017.

Ministero vs Cassazione – Due pareri usciti nel 2017 hanno però cambiato le carte in tavola. Uno è rappresentato da una sentenza della Cassazione (terza sezione penale n. 27985 del 6.6.2017) per un episodio avvenuto in Toscana di spargimento di fanghi tossici (in relazione al contenuto di idrocarburi pesanti). I giudici, non avendo trovato valori-limite per tali analiti nella normativa nazionale e in quella regionale toscana, hanno applicato un’altra legge ambientale che prevedesse limiti per tali idrocarburi. Ovvero quella sulle bonifiche (colonna A della tab. 1 dell’allegato 5 al titolo V, parte IV, del T.U. ambientale ), che fissa a 50 mg/Kg di sostanza secca gli idrocarburi pesanti (carbonio superiore a 12) massimi presenti in un terreno bonificato. Appena prima era uscita una nota del ministero dell’Ambiente (5/1/2017) , sulla base di una richiesta sempre della Regione Toscana che, citando un parere dell’Ispra, ha dichiarato l’incompatibilità fra la legislazione sulle bonifiche e quella sui fanghi da utilizzarsi in agricoltura. Due visioni contraddittorie.

Regione Lombardia introduce un valore per gli idrocarburi totali – Stante questa situazione ambigua, Regione Lombardia ha emesso la Dgr 7076 del 11/9/2017 di integrazione della normativa regionale sui fanghi introducendo il limite di 10.000 mg/Kg di sostanza secca per gli idrocarburi pesanti, nonché ulteriori limiti per Ipa, Pcb, Aox e fenoli. I nuovi limiti sono stati decisi con il supporto tecnico di Arpa, anche sulla base di studi e ricerche ormai assodate sull’impatto ambientale di tali sostanze. Ora il valore «idrocarburi pesanti» è diventato un casus belli. Non piace ai Comuni che lo ritengono «generoso». «I Comuni dicono che questo limite è troppo alto e accusano la Regione di averlo alzato rispetto alla normativa nazionale – spiega Ilaria Vecchio, responsabile unità operativa rifiuti della Provincia di Pavia – Dimenticano che il limite di 50 mg/Kg di sostanza secca non esiste nella normativa attuale sul recupero agronomico sui fanghi (D.lgs. 99/92), ma fa riferimento alla normativa sulle bonifiche adottata su decisione di una sentenza della Cassazione. Come controllori noi ci siamo trovati davanti due diverse posizioni: la Cassazione diceva di applicare i limiti sugli idrocarburi delle bonifiche ai fanghi, il Ministero diceva che non era possibile. Una Provincia lombarda, nel frattempo, aveva scelto di sposare la tesi della Cassazione per emettere diffide nei confronti di alcune ditte. Regione Lombardia ha, pertanto, meritoriamente introdotto un limite. E impone di analizzare anche singolarmente ogni Ipa e Pcb non considerandone più solo la sommatoria. Si sta facendo un polverone – sottolinea – spesso facendo affermazioni tecnicamente non corrette. Non tutti gli idrocarburi sono tossici o peggio cancerogeni, altri sono normalmente presenti in natura (vedi le resine o gli oli vegetali ) e non sono pericolosi. A mio parere la decisione della Cassazione fa un passaggio sostanzialmente non corretto, perché non prende in considerazione qualcosa che viene messo nel terreno, ma il limite che un terreno, risultato inquinato, deve raggiungere per essere considerato bonificato».

I controlli – Nella provincia di Pavia ci sono esattamente 11 aziende (più 1 che attualmente porta i fanghi da un impianto nella Bergamasca, che tuttavia è stata autorizzata per un impianto da costruire a Mortara) che dispongono di impianti per svolgere l’attività di igienizzazione e recupero dei rifiuti speciali. Di queste, due trattano i rifiuti in conto proprio (Galbani). Periodicamente le ditte sono obbligate per legge a svolgere loro stesse i controlli analitici dei fanghi, che vengono messi in campo, e dei terreni che utilizzano. Questi dati vanno trasmessi ad Arpa e alla provincia di Pavia che svolgono rispettivamente, a loro volta, ulteriori analisi a campione e amministrativi. «Nel 2016 in provincia di Pavia sono stato sparse circa 378mila tonnellate di fanghi su una superficie di circa 13mila ettari – fa sapere il funzionario Ilaria Vecchio –. Nell’anno precedente si era arrivati a 470mila tonnellate: la riduzione di circa il 20% nel 2016 è dovuta al fatto che uno dei maggiori impianti, la Cre, ha interrotto l’attività a metà anno. I numeri per il 2017 dovrebbero crescere, perché è subentrata un’altra ditta».

Odori – Uno dei punti critici rimangono gli odori, che fungono da innesco della protesta. «Gli odori si sentono, intendiamoci – chiarisce Ilaria Vecchio – Ma Regione Lombardia ha fatto fare grossi passi in avanti. La Dgr regionale di integrazione emessa del 2016 ha disciplinato ulteriormente sulle modalità di spandimento dove era già stata resa obbligatoria l’aratura immediata. E questo ha ridotto di molto i miasmi. Bisognerà comunque lavorare ancora di più su questo aspetto. In realtà le segnalazioni dei cittadini spesso riguardano altre sostanze usate come fertilizzante, che non rientrando nella disciplina dei rifiuti e pertanto non sono regolati dalle suddette normative e non hanno l’obbligo di aratura immediata».

Benefici dei fanghi – Ma quali sono i risultati in termini produttivi e di maggiore fertilità? Il gioco vale la candela? Marco Romani, responsabile di agronomia e difesa della coltura al Centro Ricerche sul Riso (Ente Risi), a Castello d’Agogna, in provincia di Pavia, è chiaro sui loro benefici. «Nella nostra zona e nella Lomellina, in particolare – spiega – abbiamo terreni poveri di sostanza organica. Una delle cause è in parte la scomparsa della zootecnia. Secondariamente i terreni sciolti con molta sabbia, che arriva al 70-80 per cento: in quelle condizioni la sostanza organica si “brucia”, viene consumata molto velocemente, come nei deserti. I fanghi sono pertanto una delle risposte alla carenza di sostanza organica dei nostri suoli. E vanno nella direzione dell’economia circolare. Io mi ero anche prodigato – fa notare – per fare arrivare in Lomellina sostanza organica più nobile, quella delle stalle. Nella zona di Brescia-Cremona hanno, infatti, un eccesso. Ma il trasporto su gomma di una sostanza povera era insostenibile per i costi, oltre a creare problemi di autorizzazione».

«Dal punto di vista agronomico – rassicura Romani – i risultati ci sono sia a livello produttivo sia per le caratteristiche chimico-fisiche dei terreni che sono migliorate. Li abbiamo testati per 12 anni e le medie degli ultimi sei anni sono 10-15 per cento in più rispetto alla concimazione minerale. L’opzione fango più minerali è stata la più performante, ma anche il fango da solo ha raggiunto dopo dieci anni di applicazioni livelli comparabili con una concimazione di minerali. L’unico problema che abbiamo riscontrato è un accumulo di fosforo, che non dà problemi di salute, ma a lungo andare finisce nelle acque e potrebbe dare eutrofizzazione delle acque, con proliferazione di alghe. Su questo aspetto c’è ancora da lavorare. Magari anche con tecnologie che riducano il fosforo nei fanghi stessi».

Riso Bio e tecniche alternative – Tra le altre prospettive di approccio, c’è quella della valorizzazione del riso bio e varietà ad hoc. Sul punto ci crede, per esempio Claudia Sorlini, presidente del comitato scientifico di Expo. «Il riso biologico è una soluzione ideale, va verso l’agricoltura sostenibile. Il biologico risponde alle strategie delle Nazione Unite, Europa e governo, perché conserva maggiormente le risorse naturali e consuma meno le sostanze organiche. I fertilizzanti hanno fatto triplicare la produzione ma hanno ridotto l’humus: l’84 per cento dei suoli europei ha oggi un contenuto di sostanze organiche inferiori al 3,5 per cento. La ricerca dovrebbe indirizzarsi nella selezione di varietà di riso che crescono in asciutto: l’agricoltura, infatti, consuma il 70 per cento dell’acqua dolce».

«È un’opportunità per il settore risicolo – riflette Romani – come quella del riso come baby food (deve avere determinati requisiti, basso contenuto di metalli pesanti eccetera). C’è grossa domanda: all’estero tira, ma è di nicchia. Il bio riguarda 16mila ettari su 230mila ettari. Per la sostenibilità non possiamo prescindere dalla fertilità dei terreni. Il suolo è sostanza organica, vita. Se diventa meno fertile, le piante hanno sempre più bisogno di armi chimiche contro le avversità. Lavoro da 20 anni all’Ente Risi – prosegue – ed è sempre stato il nostro obiettivo. Stiamo vivendo la desertificazione, soprattutto nei terreni sciolti: più nel Pavese, meno nel Vercellese. E i fanghi sono una delle risposte. Un’altra è la coltura foraggiera da interrare tra due cicli del riso (sovescio): letame verde. Le paglie di riso prima si bruciavano, adesso vengono interrate. Stiamo lavorando poi sulla sommersione invernale delle risaie. In questo modo la macerazione delle paglie (messe a mollo, nell’acqua, ndr) ne aumenta la velocità di degradazione».

Senso civico – Sui rifiuti l’allarmismo scatta velocemente. E in provincia di Pavia la soglia di allarme è oggi molto sensibile. «Si è cominciato con l’odore come campanello d’allarme – ricorda Ilaria Vecchio – nella storia è sempre stato associato con il pericolo di malattie e considerato sintomo di inquinamento. La gente ha cominciato a pensare che nei fanghi ci fossero sostanze pericolose in dosi massicce e da lì è nato più di un movimento di protesta. Bisognerebbe far capire che sono sì rifiuti, ma controllati. E in realtà rappresentano soprattutto delle risorse per la fertilità dei campi in una vera ottica di economia circolare». Qualcosa potrebbero dire anche gli agricoltori che li utilizzano e che finora, nel dibattito, sono stati in silenzio. Nessuno si è mai premurato di affermare che i terreni hanno resa maggiore e le piante meno malattie. «Anche l’agricoltore qualche controllo lo potrebbe fare – fa notare Romani – Sui reflui civili, il cittadino potrebbe dare il proprio contributo dimostrandosi attento a non riversare in fognatura sostanze inquinanti. In mezzo ci sta ovviamente chi deve legiferare bene e le piattaforme che devono fornire sostanza organica ad hoc».